Il Corviale

Foto: Alessandro Guida
Testo: Viviana Rubbo

Il Corviale. La prima volta. Ne avevamo sentito parlare, tanto; ne abbiamo studiato l’architettura, abbiamo cercato notizie e interrogato colleghi e amici. Ma sempre da lontano. Poi in occasione di una visita a Roma abbiamo deciso di andare a visitarlo.  Stazione di Trastevere, autobus 786, la periferia si svela sotto i nostri occhi.  Eravamo un po’ curiosi, un po’ intimoriti e a disagio, consapevoli che andavamo a vedere non un’attrazione turistica ma uno degli interventi urbanistici fra i più controversi e criticati in Italia. Se da un lato volevamo provare a capire, vedere la struttura, i suoi spazi, i materiali e la sua strabordante umanità (più di 6500 abitanti distribuiti su 9 piani e poco meno di un chilometro di cemento), dall’altra temevamo di essere invadenti, inopportuni nel violare degli spazi al limite tra la vita privata e lo spazio pubblico.  Era sabato. Siamo scesi all’imbocco di via Poggio verde. Il capolinea dell’autobus si trova all’estremità opposta della via. Anche l’immenso immobile finisce al limite della via, quattro fermate dopo. Il silenzio stranamente ci accompagna ed è rotto solo dai fischi e gli schiamazzi festosi dal centro sportivo “il campo dei miracoli”. La vista della mole di cemento è impressionante. Un’opera senza tempo, mai finita, un mastodonte ferito da acciacchi primordiali, di cemento sgretolato che le insidie del tempo e la mancanza di manutenzione corrodono. Una città nella città che si erge su un poggio e domina la campagna romana circostante punteggiata di orti. Irreale.  Gallerie al piano terra e scorci chiaro scuri tra le campate. Raggiungiamo i ballatoi dal corpo scale principale. Muri posticci, cancelli e inferriate sbarrano gli ingressi. Il Corviale è diviso in due corpi che corrono paralleli. Il primo di quattro piani, il secondo di nove. Il quarto piano dell' edificio più alto doveva contenere il suo cuore, la materia collettiva, le sale di riunione, i servizi, ma fu il primo anello che saltò nella catena del progetto.

Fu occupato abusivamente e ospita ancora oggi 120 famiglie che, cazzuola in pugno, si sono costruite quattro muri che racchiudono la loro quotidianità.  Ci sediamo sulle panche di cemento del quarto piano e guardiamo fuori dalle vetrate. La vista è sbalorditiva e contrasta con l’ambiente in cui ci troviamo. Una struttura aliena. Il labirinto di cemento è un intrico di gallerie, corridoi, ballatoi e blocchi ascensore. La segnaletica è imponente e ci dà la sensazione di essere all'interno di un nonluogo di Augé. Tutto sembra statico, immobile e si crea una distanza oppressiva tra la vita quotidiana e la dimensione sovraumana della struttura. Un uomo ci mostra la guardiola con le cassette delle lettere. Distrutte. Vetri infranti. Varchi senza porte. Ci abita da più di trent’anni. Come altri abitanti con cui abbiamo parlato pensa che il cuore del problema sia l’incompiutezza del progetto. Il verde e i fiori che si affacciano dalle balaustre e dalle grate delle finestre inspiegabilmente sembrano sorriderci.  Il Corviale è testimone del limite delle politiche abitative italiane, fallimento di un progetto, ed è risultato di una mancanza di risposte al diritto primario di una casa dignitosa. Il Corviale rappresenta il limite oltre il quale non si può andare. Molte associazioni e collettivi, il comune stesso e l’Ater hanno e stanno, oggi forse più che mai, mettendo in campo un paziente lavoro di tessitura di reti sociali che ha permesso di attivare un processo di rigenerazione urbana attraverso una progettazione partecipata e inclusiva. Ma il limite va trasformato in confine, frontiera ed elemento generatore di opportunità. Luogo in cui si instaurano rapporti particolari, ispirati da situazioni singolari in cui forze creative e necessità si mescolano e trovano risposte nuove. E Corviale le troverà.

sito dell’autore: www.aleguida.com